Paolo Franceschetti
1. La chiave della divina commedia: L’amore.
2. Studiare la Divina Commedia
3. Lo scopo della Divina Commedia: salvare le conoscenze templari
4. L’incontro con Beatrice
5. Maometto.
6. Paolo e Francesca
7. Rilettura della Divina commedia in chiave iniziatica
8. Conclusioni.
9. Bibliografia.
La chiave di lettura della Divina Commedia, esplicitata in modo chiaro e inequivocabile da Dante nell’ultimo verso dell’opera, è l’amore, inteso non in senso umano ma divino. Il percorso dantesco è un percorso iniziatico, un viaggio quindi di perfezionamento di se stessi, alla ricerca del segreto della vita, e quindi dell’amore, che coincide con Dio.
Non a caso, la parola amore ricorre 148 volte, con una progressione, nel senso che il numero di volte che compare il sostantivo aumenta man mano che ci si avvicina al Paradiso: troviamo la parola 19 volte nell’Inferno, 50 nel Purgatorio e 79 nel Paradiso.
Dio è chiamato «’l primo amore» già all’inizio di tutta l’opera (Inferno III, 6).
Se letta in questa chiave, quella dell’amore, molti apparenti misteri e molte incongruenze dell’opera dantesca non saranno più tali.
Che questa sia la chiave sotto la lente della quale leggere tutta l’opera è assolutamente evidente dal fatto che questo è il concetto di cui Dante parla più spesso e più a lungo; in particolare sono dedicati al concetto di amore i canti centrali di tutta la Commedia (esattamente al centro abbiamo infatti il canto XVI del Purgatorio; nel XV si comincia a parlare dei beni materiali, il XVI tratta delle cause della corruzione nel mondo, il XVII tratta dell’amore vero e proprio, il XVIII del libero arbitrio, e tali canti idealmente si collocano nel
mezzo di tutta l’opera).
Qui il concetto è spiegato benissimo, in modo spiritualmente molto elevato e sviscerato in tutti gli aspetti possibili, sì che poi tutta la Commedia può essere letta come una precisazione, una spiegazione, un dettagliare, questo concetto centrale. Anzi, Dante stesso, per bocca di Virgilio, dopo che costui gli ha spiegato per due canti il concetto di amore, precisa che ci sono altri aspetti del concetto che dovranno essere approfonditi, ma da Beatrice e in tempi successivi. Virgilio spiega anche che, però, alcuni aspetti dell’amore
non possono essere compresi solo con l’intelletto.
Ogni essere umano nasce capace di amore, che è la naturale attrazione verso qualcosa. Il punto è, però, che non tutto l’amore si rivolge sempre a cose positive, e quindi possono esserci amori distruttivi, quando l’oggetto desiderato non porta alla felicità ma alla sofferenza. Quello che viene chiamato male è in realtà amore mal indirizzato, ovvero amore per il male altrui.
E’ con la ragione che possiamo indirizzare l’amore verso ciò che ci fa bene ed è utile e positivo, sia per noi che per gli altri.
Alcuni autori ritengono poi contraddittoria l’affermazione secondo cui l’odio per Dio non sarebbe possibile, quando in altre parti dell’Inferno alcuni personaggi, come Lucifero, avevano invece affermato l’esatto contrario; ma in realtà la contraddizione è solo apparente se si ha presente il concetto iniziatico secondo cui l’uomo è una particella del divino, quindi l’odio per Dio è possibile solo nel momento in cui si ritiene se stessi separati dal tutto e da Dio.
Il concetto di amore, è dunque quello più spiegato della Divina Commedia, e a cui è dedicato il maggior numero di versi (torna infatti ad essere nominato anche nel canto XXVI del Paradiso, dove si precisa che Dio è l’oggetto dell’amore ma anche il fine e il principio di tutto) e nell’ultimo canto, dove si specifica che l’amore è il legame che tiene insieme tutte le creature e tutte le cose create (Paradiso XXXIII, 85-90).
E’ l’amore, infatti, che “move il sole e l’altre stelle”, come dice l’ultimo verso dell’opera; e l’amore è anche, in realtà, Dio stesso, come altrettanto esplicitamente dice al primo verso del Paradiso: “la gloria di colui che tutto move”. Il concetto è ribadito anche nell’Inferno, dove Dio è definito “Primo amor”, ovvero l’amore assoluto da cui tutto discende.
Dante viene spesso accusato di piazzare le anime all’Inferno, in Paradiso o in Purgatorio,
secondo un suo personale capriccio, secondo quindi una visione personale che sarebbe assolutamente parziale e soggettiva. Non si capisce infatti (e i commentatori devono scervellarsi non poco per spiegarlo) come Dante possa collocare persone che amava (come Brunetto Latini o Farinata degli Uberti) all’Inferno, o possa fare delle differenze eclatanti, come quella di collocare Paolo e Francesca all’Inferno tra i lussuriosi, mentre poi donne dalla vita dissoluta e molto più lussuriosa della amorosa coppia, vengono collocate in Paradiso, come Raab e Cunizza da Romano.
Il punto è che i vari personaggi della Commedia vengono collocati a seconda del loro grado di iniziazione (iniziazione che poteva essere anche conseguita in epoca precristiana), oppure a seconda dei “moventi” delle loro azioni; se sono dettati dall’amore, vengono collocato in Paradiso; se sono dettati da altri fini vengono collocati all’Inferno o al Purgatorio.
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Gli studi ufficiali, da sempre, si sono appuntati sul significato letterale, allegorico, o morale, ostinandosi tutt’oggi, dopo 700 anni, a presentare Dante come un cristiano fedele alla
dottrina cattolica, nonostante nella Divina Commedia di cattolico non ci sia nulla. Che Dante sia cristiano non c’è dubbio, lo dice lui stesso e a più riprese; ma mai Dante si definisce, in tutta la Commedia, fedele alla Chiesa di Roma.
Tanto per fare alcuni esempi, i più eclatanti: il Purgatorio non è assolutamente conforme a come lo presentava la Chiesa allora; l’Inferno anche, dal momento che, ad esempio, ogni persona in genere commette più peccati e invece, inspiegabilmente, Dante colloca ogni personaggio all’Inferno o in Purgatorio come se avessero commesso un solo peccato; personaggi non battezzati vengono collocati in Paradiso; il Paradiso si apre con un’ode ad Apollo e addirittura altrove si parla di “Giove crocifisso” (Purgatorio VI); non si fa cenno agli istituti dell’eucarestia o della confessione, né ad altri istituti tipici del cattolicesimo, e mai un cenno alla messa, che pure è uno dei pilastri della ritualità cattolica.
Gli studi che hanno cercato di approfondire la Commedia sono diversi ma, effettuati da un’ottica non iniziatica, non permettono di capire il quadro complessivo. Ad esempio il Valli
fece degli studi eccezionali, ma partiva sempre dal presupposto che Dante fosse Cattolico. Lacunosi sono anche gli studi di Aroux, Caetani, Pascoli, Rossetti. Per studiare Dante in chiave esoterica, quindi, abbiamo poco o niente: il libro di Robert John, “Dante templare”, che ha però il grosso limite di preoccuparsi di specificare che Dante era, sì, un templare, ma fedele alla Chiesa di Roma (una cosa difficile da conciliare); e di recente una studiosa eccezionale per chiarezza, intelligenza e cultura, Maria Soresina, la quale ha riletto la Divina Commedia in chiave catara, spiegando molti apparenti misteri dell’opera; ma anche nei suoi libri esiste un palese limite, perché la studiosa, non conoscendo i rapporti – strettissimi – tra Catari e Templari (entrambi appartenenti a quella corrente cristiana detta “giovannita”), e ignorando che Dante fosse un templare, scrive che il poeta era si, cataro, ma “certamente non era un templare”.
La lettura congiunta di questi due autori (stante lo stretto rapporto tra catarismo e templarismo) fornisce comunque una visione d’insieme diversa da quella tradizionale anche se sempre parziale.
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La Divina Commedia, letta in chiave esoterica, è un percorso iniziatico, che svela i principali segreti della dottrina giovannita, rosacrociana e templare.
Proprio perché è un percorso iniziatico, ad esempio, i peccatori sono collocati all’Inferno e puniti per un solo peccato; in quanto l’Inferno non è un luogo fisico, ma un luogo dell’anima. E con lo stesso criterio si spiega perché peccatori peggiori di altri sono collocati in Paradiso.
La cosa è nota da sempre agli iniziati, tanto è vero che Eliphas Levi, nella sua “Storia della magia”, scrive che la Commedia di Dante è un’opera che svela per la prima volta nella storia il simbolo della Rosacroce; in quest’opera c’è tutto il sapere del cosiddetto esoterismo “giovannita”, proprio di quei gruppi di società segrete che si rifacevano – come si rifanno oggi – alla dottrina di San Giovanni anziché a quella della Chiesa romana, che si rifaceva invece a Pietro e Paolo; a queste correnti appartenevano i Catari, i Patarini, i Dolciniani, i Bogomili, i Fedeli d’Amore, i Templari, i Rosacroce.
C’è allora da chiedersi perché i Giovanniti, che fino a quel momento avevano custodito gelosamente i loro segreti, decidono di mettere per iscritto il loro sapere.
La spiegazione è abbastanza evidente sol che si ponga mente alla data in cui l’opera viene redatta.
Essa viene scritta tra il 1304 (ma le data più probabile è il 1307) e il 1321, ovverosia – non a caso – proprio negli anni in cui inizia il processo ai Templari e brucia sul rogo Jacques De Molay.
Dante fu un cavaliere templare (nel museo di Vienna è presente una medaglia creata dal Pisanello, che raffigura Dante, con le iniziali F.S.K.I.P.F.T.: Fidei Sanctae Kadosh Imperialis Principatus Frater Templarius), iniziato ai misteri esoterici da Brunetto Latini, a sua volta entrato in contatto con i sufi e iniziato al templarismo in Francia; secondo l’attuale sovrano gran maestro dell’ordine templare Soeet, Luca Monti, Dante fu molto probabilmente anche il Sovrano Gran Maestro dei Templari, successore segreto di Jacques del Molay.
Si capisce allora perché i Giovanniti decidono di mettere in versi tutto il sapere iniziatico templare e rosacrociano. Il punto era che il processo ai Templari rischiava di distruggere completamente l’ordine e di disperderne le conoscenze, cosicché Dante si decide a svelare i segreti del cristianesimo Giovannita, in forma comprensibile solo agli iniziati che ne possedevano la chiave di lettura (“il velame de li versi strani”).
I Giovanniti avevano già, in passato, subito il massacro dei Catari, le cui fonti di conoscenza, i libri, e i principali esponenti, erano stati distrutti quasi completamente dalla Chiesa.
All’epoca di Dante, il rischio era che la storia si ripetesse, e che venisse disperso pure il patrimonio sapienziale templare, sì che tali conoscenze venissero definitivamente perdute.
Lo scopo del viaggio di Dante è esplicitato nel XXXII canto del Purgatorio, dove Beatrice raccomanda a Dante di tenere a mente tutto, per riferire ciò che ha visto una volta tornato sulla terra: “Però in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive”.
E più in là, nel XXXIII, il concetto viene ribadito: “Tu nota, e si come da me sono porte, così queste parole segna a vivi, del viver che è un correre a la morte”.
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Oltre ai canti del Purgatorio che abbiamo citato sopra, il concetto di amore viene precisato da Beatrice al canto XXX.
Beatrice rappresenta diverse cose: è la donna che Dante amava, e quindi simbolicamente rappresenta l’amore (non però l’amore terreno, ma quell’amore che “move il sole e l’altre stelle”); ed è l’espressione della scuola cui Dante apparteneva, l’insegnamento da seguire per raggiungere la beatitudine, la Sophia ma al tempo stesso anche l’Amore.
Nel Dolce Stil Novo, infatti, i Fedeli d’Amore si chiamavano in tal modo perché erano fedeli a quell’amore predicato da Cristo, e che la Chiesa di Roma non seguiva più da molti secoli;
Anche la chiesa catara si chiamava “Chiesa d’Amor”, in contrapposizione alla Chiesa di Roma (da notare i due termini opposti e complementari: ROMA – AMOR).
In generale quindi tutte le poesie d’amore di quel gruppo di poeti che prendeva il nome di Fedeli d’Amore (come del resto molte delle poesie dei Trovatori del 1200) nascondevano un significato esoterico.
Ciò è anche confermato dal sostantivo utilizzato da Beatrice stessa per indicare l’allontanamento di Dante dal suo insegnamento: altra “scuola”. Dante, cioè, dopo la morte di Beatrice avrebbe seguito altra scuola, non basata sull’amore, ma più sull’intelletto:
“quella scuola c’hai seguitata e veggi sua dottrina come può seguitar la mia parola; e veggi vostra via dalla divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il cielo che più alto festina”.
Beatrice spiega a Dante il motivo per cui si è ritrovato nella “selva oscura”: egli è nato infatti con doti naturali eccezionali, predestinato a compiere cose grandi, ma ad un certo punto ha smarrito la strada perché si è ritrovato a dare troppa importanza a cose materiali (“e volse i passi suoi per via non vera, immagini di ben seguendo false, che nulla promissione rendono intera”) smettendo di amare “lo bene al di là del qual non è a che s’aspiri”.
Dopo la morte di Beatrice, Dante ha quindi seguito “altra scuola”, concentrandosi sui beni materiali, nonostante la grazia divina lo avesse dotato di caratteristiche eccelse, distraendosi dall’obiettivo principale di ogni essere umano: la ricerca di Dio e l’amore.
E, per chi avesse dubbi sul fatto che Beatrice rappresenti una “scuola” di pensiero, quella della Chiesa d’Amor, contrapposta alla Chiesa di Roma, basti pensare che è Dante stesso a dire che dietro alle parole della sua Commedia si nasconde una vera e proprio dottrina: “sotto il velame de li versi strani”, infatti, Dante lo dice espressamente, si nasconde una “dottrina”, appunto; la dottrina giovannita, propria dei Catari, dei Templari, e dei Fedeli d’Amore, e che successivamente passerà ai Rosacroce e alla Massoneria.
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Dante incontra Maometto nel canto XXVIII dell’Inferno. Due sono le cose che colpiscono dell’incontro con Maometto.
La prima è che Maometto, che pure è collocato tra i seminatori di discordia, non dice nulla della ragione per cui si trova in quel posto, né dello scisma che ha creato nella religione abramitica.
La cosa che la maggior parte dei commentatori non riesce a capire è la ragione per cui proprio Maometto avverte Dante di portare un avvertimento a Fra Dolcino.
Cosa lega Fra Dolcino e Maometto?
Ma, più in particolare, cosa lega le tre figure, Dante, Fra Dolcino e Maometto insieme?
La stranezza è solo apparente e si spiega se si tiene presente due cose: che Dante era un iniziato, e quindi le sue posizioni erano molto vicine a quelle dei Dolciniani; e che Dolciniani, Catari, Templari, condividevano con l’Islam molte conoscenze. Templari e Sufi,
infatti, come abbiamo detto altrove, erano solo l’espressione di una diversità formale, all’interno di una cerchia di iniziati che condividevano però le stesse conoscenze.
Non a caso gli studiosi migliori ritengono che tutta la Divina Commedia sia stata ispirata (anche) da una corrispondente opera islamica, il “Libro della Scala di Maometto”.
Dante sta quindi dicendo che Maometto, i Dolciniani, e lui stesso, condividono uno stesso fine, sono dalla stessa parte.
Resta da capire il motivo per cui Maometto viene collocato all’Inferno.
Alcuni commentatori hanno sostenuto che Dante non potesse fare diversamente, altrimenti sarebbe stato condannato per eresia, ma tale spiegazione non è convincente perché Dante
avrebbe avuto altre possibilità per evitare il problema, come non citarlo affatto.
Il punto invece è che Maometto fu, nella seconda parte della sua vita, un condottiero militare, non un iniziato, e la sua conoscenza non derivava da un vero e proprio percorso iniziatico, ma dal fatto di ricevere i messaggi da Dio, per tramite dell’Arcangelo Gabriele. Era infatti, a differenza di Cristo, un profeta, e Dante sapeva bene che il primo era un iniziato, oltreché un maestro, mentre Maometto non lo era.
Il posizionamento di Maometto all’Inferno, quindi, non è una scelta dovuta al “peccato” da costui commesso, ma relativo al grado di iniziazione e alla quantità di amore che mossero le sue azioni: la vita di Maometto, infatti, anche se fu intrisa di amore, compassione e umiltà, era pur sempre quella di un condottiero militare, le cui campagne, per necessità di cose, non potevano essere dettate (solo) dall’amore.
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Uno degli incontri più belli della Divina Commedia è quello di Dante con Paolo e Francesca. Quando si parla dell’amore dantesco, i critici ufficiali generalmente prendono questo canto
come il più importante tra tutti quelli in cui parla dell’amore. Paolo e Francesca, travolti dall’amore l’uno per l’altro, vengono collocati all’inferno tra i lussuriosi, perché un giorno, mentre leggevano un libro, si sono lasciati andare alla passione e questo atto sarebbe peccato mortale, essendo Francesca sposata con Gianciotto Malatesta, fratello di Paolo, tanto da collocarli all’Inferno.
I commentatori non riescono però a spiegare perché personaggi che hanno avuto una vita lussuriosa molto peggiore di quella di Paolo e Francesca, vengano collocati in Paradiso, come ad esempio Cunizza da Romano, che addirittura – narrano le cronache del tempo – riteneva scortese non offrire il suo corpo a coloro che glielo chiedevano cortesemente.
La spiegazione che viene data in genere è che questi personaggi si sarebbero pentiti e si sarebbero poi dedicati alla vita religiosa, Paolo e Francesca no.
Ma la verità è che Dante non dà affatto questa spiegazione e il lettore la deve trovare da solo.
Paolo e Francesca sono all’inferno perché hanno ceduto ai sensi, perché hanno ceduto alla bellezza fisica l’uno dell’altro. Loro si amavano, sì, ma non è questo il loro peccato;
il punto invece è che si sono lasciati trascinare dalla passione fisica e sensuale.
Oltre, in diversi punti, Dante ribadirà più volte che seguire gli istinti materiali allontana da Dio e fa precipitare l’uomo nella selva oscura, mentre seguire la via spirituale, e quindi agire per amore di Dio, porta l’uomo in Paradiso. Questo concetto è particolarmente chiaro se si legge l’incontro di Dante con Beatrice.
Non c’è in tutto il canto un solo verso di riprovazione verso i due amanti, o un qualsiasi giudizio morale; anzi, Dante è commosso dalla loro storia e vi partecipa empaticamente, e l’adulterio da loro consumato viene definito “doloroso passo” (“quanti dolci pensier, quanto disio, menò costoro al doloroso passo”). I due amanti non sono all’Inferno perché hanno commesso un peccato, ma perché, come tutti, quando vengono spinti dalla passione, perdendo di vista le “stelle” che dovrebbero essere sempre usate come guide, sono come fuscelli sbattuti dal vento, senza controllo. Tra tutte le passioni terrene però, questa è senz’altro una delle meno riprovevoli, tant’è vero che la loro pena non è poi così dolorosa, se la si compara a quella di altri peccati e, anzi, potrebbe addirittura essere una condizione
desiderabile per due amanti, perché vengono costretti a rimanere insieme, anche se sbattuti dal vento (“’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri”).
(continua a leggere)
E’ ovvio che se letta nella chiave cattolica con cui tale opera viene spiegata nelle scuole e dagli accademici, l’impressione che si ricava è di contraddittorietà, parziarietà, se non addirittura talvolta di confusione concettuale; ben altra impressione si ha se si legge l’opera in chiave iniziatica.
Ovviamente è impossibile dare conto in questa sede di tutti gli aspetti dell’opera, per rileggerli in chiave iniziatica; di seguito mi limito agli accenni relativi a ciò che più mi ha colpito in relazione ai miei studi, per fornire alcuni spunti di riflessione e approfondimento a chi vorrà seguire questa chiave di lettura; e riservandomi di approfondire in articoli successivi altri aspetti dell’opera.
►Incomprensibili, in chiave letterale, sono alcune scelte poetiche come quella di chiamare Dio con l’appellativo tratto dalla religione “pagana”, Giove (Purgatorio VI, 118; Inferno XXXI, 92), o quella di collocare all’Inferno personaggi mitologici come Ulisse. Per non parlare della bizzarra scelta di iniziare il Paradiso con un invocazione ad Apollo. Tali scelte, infatti, avevano fatto insospettire la Chiesa che in un primo momento aveva osteggiato l’opera dantesca, salvo rivalutarla in un momento successivo. La cosa si spiega se invece si tiene presente che, per la dottrina giovannita, Dio è uno e sempre uguale, qualsiasi religione si segua e qualsiasi nome gli si voglia dare, come del resto è scritto anche nel Corano: se Dio avesse voluto creare una sola religione lo avrebbe fatto; se ne ha create diverse è perché voleva che diverse siano le strade per arrivare a Dio.
►Inspiegato da tutti i commentatori è il motivo per cui nel canto centrale di tutto il poema (il XVI del Purgatorio, che idealmente è al centro di tutta la Commedia) uno dei concetti dottrinali che costituiscono la chiave dell’opera, quello del libero arbitrio, viene messo in bocca ad un personaggio apparentemente scialbo di cui la maggioranza dei critici ignora l’identità: Marco Lombardo.
Il mistero può essere svelato sol che si tenga presente che tale personaggio fu il vescovo cataro di Concorezzo, considerato, allora, una delle massime autorità spirituali della Chiesa catara (ovverosia della Chiesa d’Amor, come la chiamavano i catari stessi) per la sua
levatura morale e spirituale.
►La maggior parte dei commentatori non spiega perché i golosi sono divorati da un cane (Cerbero, che li graffia, li iscoia e li isquatra) e sostiene che qui Dante non abbia applicato il contrappasso, oppure che tale contrappasso sia di difficile comprensione. Altri, invece, sostengono che il contrappasso consista nell’essere mangiati, lì dove il peccato dei golosi è di mangiare troppo e qualche commentatore addirittura si limita a dire che il contrappasso consiste nel giacere nel fango, ignorando completamente il fatto che Cerbero li divori
(v ad es, il libro “Vita di Dante”, di Pasquini).
In realtà il contrappasso è evidentissimo, sol che si tenga presente che nella dottrina catara, in quella rosacrociana e giovannita in genere, è predicato il vegetarianesimo, per rispetto agli animali; quindi i dannati ricevono, in questo girone, la stessa pena che loro hanno inflitto agli animali che hanno mangiato scuoiato e divorato, per giunta dopo averli storditi ripetutamente con urla che li confondono e li rendono quasi sordi.
►Diventa poi chiaro perché Dante ponga nella Candida Rosa dei Beati dei personaggi biblici che non hanno ricevuto il battesimo (sono personaggi che hanno seguito la via iniziatica
dell’amore); il motivo per cui non vengano citati personaggi di spicco della storia dell’umanità come Plotino o Pitagora (il sistema pitagorico e le sue dottrine sono una delle basi fondanti della Divina Commedia).
►Diventa chiara la ragione per cui Saladino (che era un condottiero islamico) viene collocato nel Castello degli Spiriti Magni, nonostante, dal punto di vista cristiano, dovrebbe essere collocato tra gli eretici (in quel periodo infatti l’Islam veniva visto come un’eresia rispetto al cristianesimo). Per giunta nella biografia di Saladino si contano migliaia di morti cristiani, tanto che costui si meritò l’appellativo di “feroce” (egli sconfisse infatti l’esercito crociato nel 1187), quindi a maggior ragione da un punto di vista cristiano, la sua collocazione corretta sarebbe l’Inferno; Saladino era però un iniziato sufi, le cui posizioni erano molto più vicine a quella cristiane e dantesche ripetto alla vulgata comune (basti pensare che anche San Francesco intrattenne rapporti ottimi con il nipote di Saladino, Al Malik Al Kamil). E tale personaggio non era “feroce” come lo dipingevano le cronache di allora; al contrario, come molti degli iniziati sufi, era un condottiero eccezionale ma amorevole e compassionevole, tanto che la sua biografia è costellata da momenti di straordinaria elevatezza; ad esempio durante la battaglia di Giaffa del 1197, re Riccardo era rimasto appiedato e Saladino gli inviò due cavalli, affinché potesse continuare a combattere come un personaggio del suo rango meritava.
►Diventa altresì spiegabile anche perché, oltre al personaggio già citato, Cunizza da Romano, vi sia una prostituta come Raab, per giunta nata prima della venuta di Cristo, collocata nel IX canto del Paradiso.
►In chiave iniziatica diventano chiari anche alcuni passi che parlano dei principali concetti spirituali: la reincarnazione, la meditazione, la continuità sapienziale tra le varie tradizioni religiose. Nel Paradiso Dante parla di resurrezione (“e quinci puoi argomentar vostra resurrezion”; Paradiso VII, 146); la critica ha sempre inteso tale termine come la resurrezione dei corpi nel giorno del giudizio, ma la verità è che Dante non accenna affatto al giorno del giudizio (che è invece un’arbitraria aggiunta di tutti i commentatori); in realtà l’autore qui sta parlando della resurrezione in chiave iniziatica che è definibile o come la
reincarnazione o, forse, come “lo stato in cui l’uomo fa l’esperienza di Dio, e riconosce che creato e creatore sono la stessa cosa, facendo l’esperienza del tutto”. Nell’ultimo canto del Paradiso, invece, egli dice chiaramente che Dio lo si può percepire solo dentro di noi, mediante la meditazione, quando avviene quel processo che in tutti i tempi e le epoche è stato chiamato “illuminazione” o “estasi mistica” (“la mente pervasa dal fulgore”; Paradiso XXXIII, 141).
Come abbiamo detto, qui mi sono limitato a qualche accenno, riservandomi in futuro di approfondire.
(continua a leggere)
Resterebbe da chiarire perché la Divina Commedia, nonostante le traduzioni letterali non le rendano merito e la riducano a un’opera incompresa nei suoi contenuti essenziali, abbia avuto tanto successo nei secoli, presso persone che del suo significato effettivo non hanno
compreso quasi nulla.
Il punto è che la prosa parla alla ragione, la poesia parla al sentimento e all’anima; ed è per questo che alcuni si sentono irresistibilmente attratti da quest’opera, pur continuando a pensare che essa consista in un banale viaggio fatto per l’incomprensibile amore di una donna conosciuta a nove anni e morta molto presto, Beatrice, di cui il poeta continua a cantare questo amore, nonostante fosse sposato da anni con Gemma Donati.
Inoltre, essendo un’opera da leggere in chiave iniziatica, è comprensibile solo a partire dal livello di coscienza e di cultura iniziatica/spirituale del lettore o dell’interprete; ad esempio un ateo o una persona priva di cultura spirituale non riusciranno mai a capire tutti i passaggi della Commedia. E da qui la spiegazione del perché la maggior parte dei lettori si innamora dell’Inferno. L’Inferno infatti tratta la materia, e questa è comprensibile da tutti. Tale cantica attrae per le suggestive immagini dei dannati, soggetti al contrappasso, nonché per i rumori, gli odori e i personaggi che lo popolano, come Lucifero, Cerbero, Caronte, che rimangono scolpiti nella memoria collettiva e sono conosciuti quasi da tutti
perché sono, in effetti, comprensibili da chiunque.
Il Purgatorio invece inizia ad essere più evanescente, le immagini diventano meno nitide, i concetti dottrinali più complessi, finché nel Paradiso c’è solo luce e amore, e può quindi rimanere abbagliato da queste cantiche solo chi dalla luce e dall’amore è attratto, e chi questi concetti li ha capiti anche nella vita reale, trascendendo la materia e vedendo ciò che c’è al di là di questa.
Infine, esiste una ragione ben precisa di ordine storico. La diffusione dell’opera di Dante divenne da subito inarrestabile, e allora la Chiesa, che pure aveva messo all’Indice alcuni testi danteschi, bruciandoli sul rogo, come il Convivio, e che nei primi tempi considerò eretica la Commedia, ad un certo punto se ne appropriò, considerando Dante un campione
della fede cattolica. Non potendo combatterla, insomma, la inglobò nel corpus delle opere ufficiali, diffondendone una interpretazione, che è tutt’ora quella più diffusa, alla luce del cattolicesimo. Per questo il reale contenuto della Commedia non è stato mai comprensibile fino ad oggi, ma è stato tramandato solo in ambienti iniziatici ed esoterici.
La Divina Commedia divenne quindi l’opera fondamentale della Chiesa romana, ma anche di quella giovannita e di tutte le organizzazioni esoteriche fino ai nostri giorni, compresa la
Massoneria; cioè dei due pilastri che hanno dominato il mondo ieri come oggi, anche se con alterne vicende.
E, come nei libri sacri di quasi tutte le religioni, ognuno ci vede quel che vuole vedere e fin dove riesce.
(continua a leggere)
Oltre ai classici studi di Aroux, Rossetti, Valli, Pascoli,
ormai quasi introvabili, segnaliamo alcune opere più recenti che si trovano
ancora in commercio:
Alessandrini, Dante Fedele d’Amore, Atanor, 1960Bartolozzi,
Exoterismo e esoterismo nell’opera dantesca (Atheneum)Contro Primo , Dante templare e alchimista
Cuccia Andrea , Il pensiero esoterico nella Divina Commedia di Dante, Rubbettino
Cusani Emma,
Il grande viaggio nei mondi danteschi. Iniziazione ai Misteri Maggiori
(Edizioni Mediterranee)Dainelli Chiara , Il codice astronomico di Dante, Il sapere proibito della divina commedia, Eremon.De Benedetti Stow Sandra , Dante e la mistica ebraica, Giuntina
Di Stefano René, L’altro Viaggio, Ecig.
Guenon René, L’esoterismo di Dante
Guenon Renè, L’esterismo Cristiano e San bernardo, Oggero editore.
Lancianese, I templari, Dante e i fedeli d’amore, Ed. Cenacolo Pitagorico Adytum.
Lanza Adriano, Dante e la gnosi, Mediterranee
John Robert, Dante templare.
Lanza Adriano, Dante eterodosso, una diversa lettura della divina commedia, Moretti e Vitali
Macaluso Giuseppe, Dante e Maometto
Malvani Angela e Giulio Malvani, Arbor Vitae, Il paraiso di dante e l’albero della vita nella cabala ebraica, Penne e Papiri
Malvani Angela e Giulio Malvani, L’inferno esoterico di Dante
Manetti Renzo, Beatrice e Monna Lisa, Polistampa.Manfred Hardt, I numeri nella divina commedia, Salerno
Mazzarella Adriana, Alla ricerca di Beatrice, Dante e Jung; Edra.Noureldeen Abdullah, Occhio diverso sulla divina commedia, Universitalia
Philaletes A., L’esoterismo Rosacroce nella Divina Commedia, Bastogi.
Palacios Miguel Asin, Dante e l’Islam
Poltronieri Morena, Ernesto Fazioli, E Dante scrisse di magia, Hermatena.
Ricolfi Alfonso , Studi sui fedeli d’amore
Riva G. Iacomini A., Cima M. Opere e linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d’amore, straordinari rischiaratori dell’universo, Il levante
Signore Carlo, Nei segreti di Dante, Archè.
Soresina Maria, Libertà va
cercando, Il catarismo nella Commedia di Dante, Moretti e Vitali
Soresina Maria, Nelle segrete cose, Moretti e Vitali.
Trusso Antonio, Dante e la tradizione alchemica, MimesisValli Luigi, Il segreto della Croce e dell’aquila nella Divina Commedia, Luni editrice.
Valli Luigi, Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d’amore, Firenze libri editrice.Vinassa De Regny, Dante e Pitagora, la rima segreta in Dante, Guaraldi.Si consiglia inoltre la visione del film di Lois Nero, Il mistero di Dante.
La tesi secondo cui Dante sarebbe
il Maestro segreto dei Templari dopo Jacques De Molay è accennata da Luca Monti
nel libro “Firenze città santa dei templari”.Per un precedente articolo su Dante pubblicato su questo blog v:
http://paolofranceschetti.com/?p=790Scrive
Solange Manfredi:
La
Divina commedia non va studiata, va vissuta, amata, letta come se si guardasse
negli occhi dell’amata perdendosi, non cercando di capire per quale strano
gioco dei colori dell’iride il suo sguardo è così meraviglioso.
La divina commedia parla a
tutti, verrà capita da ciascuno a seconda delle sue capacità e dall’incontro
che nella vita faranno con qualcuno che li guidi, con dolcezza, a capirne la
chiave di lettura. Gli studi sulla divina commedia sono fuorvianti o incompleti
non perché fatti da non iniziati, anche, ma non è questo il punto. Sono
incompleti perché sono stati fatti da persone non formate, da persone che hanno
usato solo la ragione e non il cuore, da persone che, ebbre della loro ragione,
non si sono accostate all’opera con umiltà, ma più attente a dare sfoggio alla
loro erudizione ma, ancora di più, da persone che spaventate, hanno usato la
ragione per leggere la divina commedia senza avere il coraggio di fare ciò che
Dante chiede si dal primo canto, ovvero con umiltà fai il viaggio con me. Per
evitare di fare quel viaggio dentro di loro si sono trincerati dietro la
ragione e le parole. Non hanno fatto il viaggio, hanno solo guardato il viaggio
di Dante, come si guarda un film, non lo hanno vissuto, ma lo hanno analizzato
e giudicato. È per paura di fare il viaggio che non si capisce la Divina
commedia.
La divina commedia, letta
con coraggio, cioè facendo il viaggio e non semplicemente guardando chi fa il
viaggio, svela il segreto della vita, non una dottrina. Certo, giovanniti,
rosicruciani e templari erano i custodi di tale segreto, ma il segreto è
universale ed oggi è per tutti.
Il percorso compiuto da
Dante, poi, non è un percorso alla ricerca dell’amore, ma un percorso alla
ricerca del segreto della vita, che è l’amore.
Il Mix
13 Gennaio 2016 @ 22:32
Bellissimo articolo. Il Poeta ha tentato di dire l'indicibile, l'Opera che si fa dentro se stessi e che non si può dire. Il termine Amore rischia una feroce banalizzazione in ogni epoca e luogo. Appena lo nomini non c'è più.
Cattolicesimo (le religioni, l'essoterismo) ed Esoterismo non sono in contraddizione, sono diversi livelli di comprensione ed attuazione della stessa realtà ultima. Inarrivabile, fortunatamente.
Stella Picarò
15 Gennaio 2016 @ 13:25
Articolo davvero molto interessante. Bravo Paolo!
Finalmente un'interpretazione che dica esplicitamente che il criterio con cui vengono inseriti i vari personaggi nei canti è basato sul loro gradi iniziatico. Oltre alla lettura catara della Commedia che hai citato te ne segnalo anche una prettamente alchemica, racchiusa nell'opera "Dante templare e alchimista. La pietra filosofale nella Divina Commedia, Inferno" di Primo Contro. L'autore purtroppo si limita ai primissimi canti dell'Inferno e all'epoca dei miei studi di alchimia per la tesi gli avevo anche scritto per esporgli alcune mie interpretazione dei canti successivi, ma senza riceverne risposta… Chissà che magari non accetti di parlarne a BN!
Ti segnalerei volentieri anche alla "Scuola di Studi Danteschi", organizzata ogni anno in Agosto a Ravenna dall'Università Cattolica… Purtroppo le letture proposte, per ovvie ragioni, sono sempre le stesse… Ma chissà che forse non sia arrivato anche per loro il tempo di accogliere nuove visioni.
Ancora complimenti.
Un saluto da una concittadina di Dolcino
Paolo Franceschetti
15 Gennaio 2016 @ 19:31
ciao Stella. In genere non c'è speranza che in una unversità, per giunta cattolica, si possa leggere dante in altro modo. Ma grazie del pensiero
Stella Picarò
15 Gennaio 2016 @ 21:51
Caro Paolo, allora devo essere riuscita in una bella impresa, dato che proprio in Cattolica mi sono laureata con una tesi dal titolo Morfologia della Fiaba d'Alchimia. 🙂 Devo dire che ho avuto una Relatrice davvero illuminata! Io comunque da quando ho frequentato la Scuola di Studi Danteschi nel 2010 ho continuato a segnalare agli organizzatori l'inutilità di studi magari di 100 pagine su quante volte compare la parola "Dio" o la parola "Amore" nelle cantiche se poi non si sa cosa intendesse davvero dire Dante con quei termini. Ovviamente finora le segnalzioni non si sono tradotte in un cambiamento di rotta nell'insegnamento, ma io non demordo. D'altra parte se hanno invitato Fabio Volo a tenere una lezione sul tema della Comuncazione, tutto può avvenire, o no?
Paolo Franceschetti
16 Gennaio 2016 @ 16:52
Che dire stella? Il mondo sta cambiando un po'. per fortuna. 🙂 Proviamo… 🙂
Nikodemo
16 Gennaio 2016 @ 21:58
Paolo, sei stato bravo come sempre…per favore nei prossimi articoli su qs tema dicci qualcosa di più su cosa dice la Commedia circa la meditazione. Ciao
Ghigo Battaglia
23 Gennaio 2016 @ 2:45
La tua lettura mi sembra valida ed esauriente. Resta da capire il passaggio che lega la Commedia ai fatti di sangue ed orrore di cui hai scritto nel tempo.
Perché chi si professa 'giovannita' è poi avvezzo all'omicidio senza movente?
Perché chi si dona ad un'esistenza spirituale tenta poi sempre di possedere il mondo? Qual è il legame tra l'Europa dei templari (quella odierna), il denaro e la spiritualità?
Per ultimo…speriamo che Eco non abbia letto quest'articolo, sennò ti scaglia Jorge da Burgos addosso, altro che cerbero!
Ciao e grazie ancora per la tua opera preziosissima di divulgazione.
Atanor Orzowei
24 Gennaio 2016 @ 13:26
interessantissimo interessantissimo come al solito il nostro Paolone Nazionale non si smentisce mai …una garanzia senza se senza ma….Grazieeeeeeeee
Anonimo
26 Gennaio 2016 @ 9:48
Chi si professa "giovannita" è avvezzo all'omicidio senza movente poiché tale "religiosità" è PRE-CRISTIANA e prevede rituali sacrificali di sangue. Intendo sacrifici umani, e venerazione di entità soprannaturali svariate, comprendenti anche un principio femminile, non solo il Dio maschile.
Ennio Fusi
30 Gennaio 2018 @ 4:11
Consiglio Alessandro Scali ” Dante pietra d’inciampo”