Una brutta, bruttissima storia quella di Jamal Khashoggi e della sua atroce fine all’interno del consolato saudita di Istanbul.
Una storia horror che potrebbe essere uscita dalla penna di Edgar Allan Poe o di Stephen King.
Ma questa è, purtroppo, una storia vera, non una fiction.
E siamo ben lontani dagli accenti poetici di “Assassinio nella Cattedrale” di Thomas S. Eliot.
Una storia, tuttavia, che, a ben guardare, ci può rivelare molte cose.
Non che fosse uno stinco di santo Jamal Khashoggi, anzi.
Era sì approdato al giornalismo e lavorava per il Washington Post, ma aveva attività di collaborazione con i servizi segreti sauditi e americani.
Nel passato aveva abbracciato entusiasticamente la Fratellanza Mussulmana, una organizzazione semi-segreta che ha come finalità quella di liberare il mondo arabo dalla corruzione e dai regimi autocratici, e l’aveva attivamente appoggiata durante le varie ‘Primavere Arabe’; in linea dunque con i cambi di regime provocati da Hillary Clinton e Barack Obama in Medio Oriente.
Tuttavia, dopo l’uscita di scena di Mubarak in Egitto e gli ottimi risultati elettorali della Fratellanza, i regnanti sauditi – a partire da Re Salman e suo figlio – temendo di fare la fine di Mubarak pensarono bene di finanziare delle controrivoluzioni in Egitto e non solo.
Ecco perché Khashoggi aveva deciso di lasciare l’Arabia Saudita e di trasferirsi negli USA, dove, peraltro, contava su una discreta sponda presso ambienti politici e giornalistici, che gli avevano permesso di ottenere in breve un visto a tempo illimitato.
Grazie a questa sua posizione aveva iniziato a bersagliare la monarchia e in particolare il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman con articoli estremamente critici.
Ma veniamo alla nostra storia horror.
Dunque, il nostro Jamal Khashoggi il 28 settembre, si reca nel consolato saudita a Istanbul per chiedere un certificato di stato civile che gli serve per sposare la sua fidanzata turca, Hatice Cengiz.
Gli viene detto di ritornare a ritirarlo, così decide di recarsi a Londra per una conferenza e di ritornare a Istanbul nel pomeriggio di martedì 2 ottobre.
Quel giorno, il 2 ottobre, appunto, alle 13.14 commette l’imperdonabile leggerezza – ben sapendo di essere un nemico dichiarato del proprio governo – di ritornare nel consolato del suo Paese per ritirare il documento.
Eppure forse un presentimento ce l’ha perché lascia alla fidanzata i suoi due cellulari dicendole di chiamare aiuto se non dovesse far ritorno entro un paio d’ore.
Ma, come raccontato dalla fidanzata, che dopo qualche ora inizia a preoccuparsi e si reca davanti alla sede diplomatica, dal consolato non fa più ritorno.
Di lui, però, là non v’è traccia.
In realtà lo sventurato giornalista è stato assassinato e fatto a pezzi dopo pochi minuti dal suo ingresso nel consolato saudita di Istanbul.
Da quel momento inizia un tourbillon di dichiarazioni e controdichiarazioni.
I turchi sostengono di avere le prove che Jamal Khashoggi è stato assassinato e fatto a pezzi all’interno del consolato e che è intervenuta una squadra speciale di 15 agenti – compreso un medico esperto di autopsie – direttamente da Riad per gestire la situazione.
I sauditi, per bocca dell’ambasciatore, dichiarano candidamente: “Khashoggi è entrato ed è uscito dopo pochi minuti o un’ora”.
Dunque no, noi sauditi, conferma anche Riad, non c’entriamo niente.
Ma l’occasione è troppo ghiotta per il ‘Sultano’ Erdogan, formalmente alleato ma di fatto feroce rivale dei sauditi per lasciarsela sfuggire, tanto da far pensare che possa trattarsi di una vera e propria trappola organizzata dai turchi per prendere in castagna l’odiata famiglia reale saudita.
Il 3 ottobre – sarebbe stata la data del matrimonio del povero Jamal – la fidanzata si reca nuovamente al consolato ma di lui nessuna traccia.
Anche il Washington Post si allinea, il 7 ottobre, con Ankara: “Il corpo di Khashoggi è stato probabilmente tagliato e messo in casse prima di essere trasportato fuori dal Paese”.
Il giorno successivo, l’8 ottobre, ancora menzogne da parte del fratello minore del principe Khaled bin Salman che dichiara: “Vi assicuro che le notizie second cui Jamal Kashoggi è scomparso nel consolato di Istanbul o che le autorità del regno [saudita] lo hanno imprigionato o ucciso sono assolutamente false e prive di fondamento“.
Come in una partita a scacchi in cui il futuro vincitore – il ‘Sultano’ Erdogan – vuole assaporare il trionfo giocando al gatto con il topo, il 10 ottobre fa pubblicare dai media turchi immagini della squadra di ‘15 assassini’ arrivati da Riad e partiti nell’arco della stessa giornata e dei video dei movimenti sospetti al consolato saudita di Istanbul dopo la scomparsa di Khashoggi.
Silenzio da parte saudita.
Anche il giorno dopo, l’11 ottobre, da Riad si nega l’evidenza; l’ambasciatore a Washington, sempre il nostro principe Khalid bin Salman bin Abdulaziz parla di illazioni false e la posizione ufficiale saudita rimane quella di Khashoggi uscito dal consolato pochi minuti dopo essere entrato.
Prove a sostegno di questa versione? Nessuna.
Al Arabiya addirittura scrive che i 15 membri della squadra saudita erano solo semplici turisti…
Ma il 12 ottobre qualcosa si muove; arriva ad Ankara una squadra da Riad per investigare sul caso Khashoggi.
Il giorno dopo, 13 ottobre, ancora ci si ostina a negare i fatti ormai indubitabili viste le riprese e le foto pubblicate sulla stampa di mezzo mondo; il ministro dell’Interno saudita Abdulaziz bin Saud bin Naif bin Abdulaziz e l’Agenzia di Stampa ufficiale saudita negano qualsiasi responsabilità sulla scomparsa o eventuale omicidio di Khashoggi, liquidando come ‘menzogne’ dirette a danneggiare il governo saudita l’ordine di uccidere il giornalista del Washington Post.
Ma l’indignazione – a parole perché nei fatti nessuno degli attori e degli spettatori di questa cruenta e mostruosa vicenda vuole perdere i lucrosi affari con Riad – internazionale inizia a montare e i sauditi iniziano a rendersi conto che qualcosa bisogna pur fare.
E cosa fanno? Invece di ammettere l’evidenza, il 14 ottobre non hanno niente di meglio da dire se non minacciare rappresaglie. Sottolineano l’importanza vitale del Paese nel contesto economico mondiale e minacciano ritorsioni in caso di sanzioni o altre misure punitive.
In fondo, si sa, la miglior difesa è l’attacco.
Il giorno dopo, 15 ottobre, assistiamo addirittura allo squallido spettacolo di Paesi come il Sudan, il Kuwait e le Comore che appoggiano la versione saudita e parlano di fake news strumentali.
Nel frattempo però Al-Jazeera mette in rete un video nel quale si vede un gruppo di persone addette alle pulizie con relativi strumenti che esce dal consolato.
Arriviamo al 16 ottobre, giorno in cui il cerchio si stringe intorno ai macellai sauditi.
Durante la notte un team di investigatori turchi ha ispezionato il consolato per nove ore e dichiarando che tutte le pareti sono state riverniciate di fresco.
La CNN, citando una fonte anonima turca, racconta che il cadavere di Khashoggi sarebbe stato fatto a pezzi nel consolato di Istanbul, confermando una notizia peraltro già pubblicata dal New York Times.
La situazione si fa difficile e, per salvare il salvabile, vale a dire per non dover mettere in gioco miliardi di dollari di affari con l’alleato saudita, anche Trump prende posizione arrampicandosi sugli specchi.
In una intervista con la AP, il presidente americano escogita la nuova fantasiora ipotesi di non meglio identificati “rogue killers” o di “killer canaglia” che sarebbero i fantomatici responsabili della sparizione di Khashoggi.
È ben noto che mentire sapendo di mentire è la norma per i presidenti USA, e non solo per loro.
Sopratutto quando ne va dei pingui proventi destinati al Deep State.
Che poi ci siano di mezzo morti ammazzati è del tutto irrilevante, business is business.
D’altra parte basti pensare che gli USA, eroici paladini della libertà ed esportatori di democrazia, cavalieri senza macchia né paura sempre pronti ad intervenire contro chiunque possa essere tacciato di razzismo o di totalitarismo (Saddam Hussein, Gheddafi, Assad etc. etc.) hanno come più stretti alleati le due nazioni più razziste – Israele – e totalitarie e illiberali – Arabia Saudita – al mondo.
Un esempio da manuale di double standard, in italiano doppiopesismo.
Il 17 ottobre, citando ben tre fonti turche, la CNN riferisce che Khashoggi sarebbe morto dopo un interrogatorio da parte di ufficiali di alto rango dei servizi.
Lo stesso giorno esce un articolo del New York Times che rivela i raccapriccianti dettagli della fine di Khashoggi.
Al nostro sfortunato giornalista sarebbero state prima tagliate le dita, sarebbe poi stato decapitato ed infine smembrato. Il tutto registrato in un audio confermato da una fonte ufficiale turca. Il malcapitato sarebbe morto in dieci minuti.
E qui il colpo di scena.
Dopo aver negato l’innegabile, difeso l’indifendibile, mentito spudoratamente a tutti i livelli possibili, la maschera saudita cade.
Il 19 ottobre Riad ammette che Khashoggi è effettivamente morto all’interno del consolato, raccontando però un’altra inverosimile favoletta, secondo la quale il cinquantanovenne giornalista sarebbe morto nel corso di una – udite udite – scazzottata.
Si sa che nei consolati, tra una pratica e l’atra, tra una visita e l’altra, ci sono regolari incontri di boxe.
Per dare ulteriori dimostrazioni di ‘buona volontà’ (sic!) rispetto all’indignazione ormai globale nei confronti del Paese, la monarchia saudita cerca di chiudere la stalla dopo la fuga dei buoi cercando i capri espiatori di turno.
Mette allora sotto indagine 18 propri cittadini incolpandoli della morte di Khashoggi e licenzia il vice capo dei servizi, Ahmed el-Asiri, ed il consigliere di corte Abdullah al-Qahtani.
E siamo arrivati alla cronaca degli ultimi due giorni.
Lo scetticismo e le critiche nei confronti della corona saudita che si è decisa di ammettere quanto avvenuto all’interno della propria sede diplomatica dopo ben 18 giorni di menzogne sono ormai virali e anche i più vergognosi e vili tentativi di far finta di nulla da parte dell’amministrazione americana si scontrano con una riprovazione internazionale.
Il business as usual a volte deve fare i conti se non con la moralità, che di quella si sono perse le tracce, ma quantomeno con la pubblica opinione.
Il colpo più grave alla credibilità saudita viene inferto – non c’è da stupirsene – dal ‘Sultano’ che fa trapelare come Ankara abbia in mano le registrazioni audio oltre ad altre prove in grado di dimostrare che l’intera spiegazione saudita e del principe ereditario siano un falso e di come, al contrario, sia stato portato a termine un piano preordinato per assassinare e fare a pezzi un pervicace oppositore del regime.
Il gioco del gatto con il topo di Erdogan – peraltro un amico personale di Khashoggi – continua; dipenderà dalle mosse degli altri protagonisti di questa sanguinosa vicenda se i turchi scopriranno le loro carte e renderanno realmente pubbliche le loro prove.
Allo stato attuale dei fatti quel che è certo è che il principe Mohammad bin Salman, reale reggitore dell’Arabia Saudita, abbia fatto un colossale errore autorizzando – se non addirittura ordinando – l’assassino del rivale Khashoggi, considerando che la mal gestita azione criminale ha fornito ad Erdogan il destro per tenerlo in pugno.
Ma stamattina 21 ottobre – dunque appena il giorno successivo alla ammissione da parte dei sauditi del fatto che il giornalista è stato ucciso in una ‘scazzottata’ all’interno del consolato di Istanbul – si è andati oltre il ridicolo raggiungendo vertici dell’assurdo mai sfiorati prima, con il ministro degli esteri saudita Adel al-Jubeir che ha sostenuto, in una intervista a Fox News, che “i sauditi non sapevano come Khashoggi sia stato ucciso né tantomeno dove si trovi il corpo”. Naturalmente aggiunge che il sovrano non era al corrente dell’uccisione del giornalista che – bontà sua – definisce “un terribile errore”.
Nel contesto delle alleanze e rivalità che oggi stanno dividendo ferocemente il Medio Oriente, a questo punto non mi stupirebbe che quel che afferma il direttore dell’Associazione della stampa arabo-turca, Turan Kislakci, “La storia non finisce qui, questo è solo l’inizio” sia la pura, terrificante verità.
Articolo dal sito Libero Pensare di Piero Cammerinesi: https://liberopensare.com/articoli/1437-quando-la-realta-supera-l-immaginazione