(Conversazioni con Piero Cammerinesi)Come ho sottolineato nel mio
libro sulle religioni e sulla spiritualità contemporanea, ogni maestro spirituale ha portato sempre lo stesso messaggio (amore o compassione, lavoro su se stessi, la realtà esterna come specchio della realtà interna), adattandolo ai tempi e ai luoghi, oltre che ai costumi. Tutti i maestri spirituali hanno inoltre attraversato tappe del
cammino simili tra loro, in particolare nella morte (sono morti tutti assassinati, in misura più o meno eclatante; Gesù morì crocifisso, ma la stessa sorte toccò nel 13esimo secolo al maestro sufi Al Hallaj; Buddha, Osho, Steiner, Maometto, morirono avvelenati).
C’è poi un’altra costante, poco sottolineata ma evidente ai discepoli, specie quelli più stretti: il tradimento. Prima o poi il maestro tradisce la fiducia dei discepoli. E ha dei comportamenti che fanno dire a una gran parte delle persone: “Eh ma se era un maestro perché si è comportato così? Vedi che non era un vero maestro?”.
Gesù viene catturato e torturato prima della crocifissione; faceva miracoli, poteva prevedere il futuro, e avrebbe ben potuto risparmiarsi la morte in croce. Eppure non lo fece. Immaginiamo lo sgomento dei discepoli, che lo vedevano come una guida, lo consideravano la luce della loro notte buia dell’anima, lo scopo della loro vita, che un bel giorno si trovano senza di lui. Immaginiamo come dovevano sentirsi traditi, abbandonati, pieni di domande: “Perché ci ha lasciati soli? Come mai non ci ha avvertiti? Poteva salvarsi, ma non l’ha fatto… Siamo sicuri che fosse un maestro?”.
Una delle chiavi delle controversie sorte dopo la morte di Gesù (se sia morto davvero e basta, come vorrebbe la storiografia atea; se sia risorto e asceso al cielo come vorrebbero
i Vangeli canonici; se non sia morto affatto ma solo “sopravvissuto”; se dopo la resurrezione continuò a predicare e andò in Tibet, come sostengono alcune fonti, o approdò in Gallia, come sostengono altri) sta nel fatto che le fonti successive discordano proprio sul piano della realtà oggettiva.
Molti discepoli, sentendosi traditi, lo considerarono morto e basta. Alcuni, amandolo di un amore assoluto, lo considerarono risorto. Altri si sentirono traditi dal fatto che, dopo la resurrezione, prese altre strade e andò a insegnare altrove, e quindi raccontarono i fatti in modo distorto. Per questo motivo la figura di Gesù rispecchia, in realtà, come succede con tutti i maestri, solo l’osservatore, non l’osservato, e questo non solo dopo duemila anni, ma già ai tempi in cui era in vita, contribuendo alla confusione storica attuale sulla sua figura.
In realtà, per usare le parole di Piero Cammerinesi, il buon maestro non tradisce i discepoli; sono i discepoli che talvolta, non capendolo, si sentono traditi. E magari lo tradiscono a loro volta, come avvenne per Giuda.
Per i maestri contemporanei vale sempre la regola per cui il giudizio su di loro rispecchia l’osservatore, non l’osservato, ma essendoci maggiori fonti, perlomeno su alcuni fatti oggettivi nessuno ha dubbi.
Ad esempio, Steiner morì avvelenato, non accorgendosi che nella società antroposofica da lui fondata si celavano dei traditori. Questo è un dato di fatto, ed è quindi una realtà che
non si può negare.
Ma anche qui possiamo leggere la sua morte in chiave di tradimento.
La prima domanda che viene da porsi è: ma se era un veggente, se sapeva tante cose, come ha fatto a non prevedere quello che sarebbe successo?
La risposta è che questi personaggi spesso conoscono data e modalità della loro morte, ma lasciano a chiunque il loro libero arbitrio, arrivando al sacrificio di loro stessi pur di non intaccare la libertà altrui.
Yogananda muore durante un banchetto, a cui partecipavano personaggi politici di spicco, oltre ad alcuni discepoli, subito dopo aver tenuto un discorso sull’unità delle religioni. Se
ne va a 59 anni, troppo giovane rispetto al suo stato di salute, e senza alcun preavviso. Possiamo immaginarci come si siano sentiti soli i suoi discepoli, abbandonati all’improvviso e senza avere il tempo di prepararsi psicologicamente. Swami Kriyananda, il suo discepolo prediletto, all’epoca aveva meno di trent’anni, e fu costretto, per tutti i suoi successivi 60 anni di vita, a lavorare su se stesso, senza altro aiuto esterno se non quello degli insegnamenti che aveva ricevuto in vita.
Peraltro in vita Yogananda disse a Kriyananda che avrebbe trovato Dio solo alla fine della sua vita, e così fu.
Kriyananda, pur essendo una persona spiritualmente molto evoluta, lavorò incessantemente su se stesso, trovando Dio solo alla fine della sua vita, ma sorretto sempre, in tutto il suo cammino, dall’amore per il maestro.
Questa cosa è evidente anche nella vita di Osho. Osho tradisce la fiducia dei suoi discepoli più volte. La prima volta, quando parte per l’Oregon senza avvertire tutta la comunità indiana. La seconda volta, quando Sheela, la sua collaboratrice più stretta, fugge con i soldi della comune lasciando Osho e i suoi Sannyasin in un mare di guai. Viene allora da domandarsi: ma dove era la veggenza del maestro, la sua lungimiranza, come aveva potuto sbagliare così clamorosamente la sua valutazione? In realtà è colui che si pone queste domande che sbaglia la sua valutazione, perché le vicende umane del singolo (del maestro compreso) seguono vie imperscrutabili, mentre l’unica valutazione che una persona deve fare dovrebbe riguardare l’insegnamento del maestro, il suo messaggio, non tanto i suoi presunti “errori”.
Non a caso, oggi, rimane del suo lavoro un’imponente produzione bibliografica. Libri stupendi, che probabilmente aiutano nel percorso spirituale un numero maggiore di persone oggi, rispetto a quando lui era in vita.
Uno dei tradimenti più eclatanti fu quello di Krishnamurti, che – dopo lunghi anni di studio, preparazione, educazione che gli erano stati impartiti dai membri della Società teosofica – il giorno in cui doveva tenere il discorso ufficiale di “insediamento” per essere riconosciuto come il “maestro del mondo” e leader dell’organizzazione nota col nome di “Stella d’Oriente”, pronunciò invece un discorso di segno completamente opposto: sciolse l’Ordine, proclamò che “la verità è una terra senza sentieri” e che non bisogna dipendere da guru e organizzazioni, e iniziò un suo percorso personale, indipendente dall’organizzazione nel cui seno si era formato.
Il tradimento, in realtà, è necessario per svincolare il discepolo dal maestro, affinché egli vada avanti con le sue gambe. Il messaggio continua a diffondersi, e si diffonde per bocca
di coloro che, nonostante tutto, hanno compreso il contenuto dei suoi insegnamenti, e non si sono lasciati offuscare dai suoi comportamenti umani, ma, anzi, dai suoi errori umani hanno spesso imparato di più che dai suoi insegnamenti teorici.
Spesso, come succede con Gesù, con Osho, con Yogananda, i discepoli escono rafforzati dalla sua morte, sono costretti a trovare in loro stessi una maggiore forza, e spesso da quel momento inizia il percorso di diffusione del messaggio del maestro.
Il tradimento del maestro, ma anche il suo significato, è chiaro anche nel racconto della morte di Buddha così come viene tramandato. Buddha muore avvelenato, come abbiamo detto. Uno dei suoi discepoli prediletti, Ananda, piangeva a dirotto, senza riuscire ad arrestarsi, dicendo: “Ma perché ci lasci? Come faremo senza di te? Chi ci indicherà il cammino?”. Si sentiva probabilmente tradito, abbandonato troppo presto, senza preavviso, e soprattutto la domanda di fondo era: “Ma se sei dotato di poteri sovrannaturali, come hai potuto non prevedere che il cibo fosse avvelenato?”.
E Buddha rispose: “Ananda, ma allora non hai capito il significato della mia venuta sulla terra. Molta strada devi fare per raggiungere l’illuminazione, se ancora non hai capito che la
morte non esiste, e che non è su di me che devi contare per andare avanti”.
Si narra che Ananda, dopo la morte del Buddha, rimase giorni e giorni in meditazione, per arrivare infine all’illuminazione.
Ma il tradimento dei maestri cela, in realtà, un ulteriore e più profondo messaggio. A tradire non è mai l’altro, ma noi. La fiducia non dobbiamo riporla nell’altro, ma in noi stessi.
Riporre fiducia nell’altro ci espone inevitabilmente a delusioni, perché l’altro non solo non è perfetto (come noi del resto) ma soprattutto non corrisponderà mai al NOSTRO concetto di perfezione. Prima o poi quindi ci deluderà. L’unico modo per non rimanere delusi è riporre fiducia in noi stessi, e nella nostra capacità di prevedere e conoscere gli altri; e quando rimaniamo delusi, concentrarci non sul comportamento dell’altro, ma sulla nostra reazione. Se il partner ci tradisce, la domanda più importante non è “perché ci ha tradito” (quella ce la possiamo porre sì, ma solo dopo, in un momento successivo, senza tra l’altro mai essere sicuri della risposta) ma “come ho fatto a non capirlo, prevederlo, anticiparlo, sentirlo?”.
Il tradimento dei maestri cela, quindi, più in profondità, il messaggio universale di riporre la fiducia solo in noi stessi, evitando di affidarci in modo incondizionato a qualcun altro.
E quando un maestro non tradisce, semplicemente, scompare. Come fa il maestro (la cui identità non ho mai individuato) di cui parla Cyril Scott nel suo bel libro dal titolo “Il maestro”; come fece Akin nel racconto che ho fatto nel mio articolo “Ascolto e meditazione”. Come descrive De André nella sua canzone “La cattiva strada”, in cui un giorno il maestro, dopo aver sconvolto la vita di molte persone scardinandone gli schemi, “sparì del tutto”.
Ed è da quel momento che comincia il vero lavoro del discepolo. Prima era solo una preparazione.
Il tradimento del maestro, però, aiuta il discepolo a portare a compimento quello che è l’insegnamento più importante, che è sviluppare l’amore come stato di coscienza (in termini
tecnici si direbbe che aiuta a sviluppare e aprire il quarto chakra, quello del cuore). L’amore porta infatti alla comprensione totale dell’altro; superando le barriere razionali poste dalla mente, ci porta ad una conoscenza profonda dell’altro. In genere, chi ha amato un maestro, lo ha amato al di là di qualsiasi altro amore umano possa essere conosciuto; e col suo tradimento questo amore viene messo alla prova in modo deciso. A quel punto il discepolo è costretto a guardare dentro di sé per capire quale parte dei suoi sentimenti era amore, e quale era invece un sentimento egoistico (di possesso, protezione, ecc.), per depurare se stesso dalle scorie negative.
Gli ostacoli posti alla mente razionale dai maestri, servono anche a questo: l’amore, in quanto sentimento totalizzante, ci fa amare anche gli errori e i difetti, ma porta alla comprensione totale non solo dell’altro ma anche di noi stessi. Chi si concentra solo sui difetti, distruggendo la totalità in nome del particolare, fa prevalere in genere la mente razionale, o comunque si dimostra incapace di aprire il quarto chakra.
Il tradimento, quindi, serve come chiave, per aumentare ancora di più la capacità di amare il maestro; ma amando ancora di più il maestro si ama necessariamente di più il suo messaggio, che entra ancora più profondamente nel discepolo. Ed essendo il messaggio
principale di tutti i maestri, quello di amare di più se stessi, il tradimento serve ad aumentare la nostra capacità di amare.
Un po’ quello che dovrebbe succedere col tradimento del partner e coi tradimenti in genere.
Il tradimento del partner dovrebbe servire a due cose: farci entrare di più dentro noi stessi, in modo da porci le domande: “Cosa ho fatto io per creare questo tipo di realtà? Cosa ho
fatto per arrivare a questo punto?”; e farci capire se amiamo davvero l’altro oppure se la relazione non si risolveva solo in un amore per noi stessi. Perché solo amando davvero l’altro, si capisce a fondo il “tradimento” del partner; ma allora questo tradimento non diventa più tradimento, e assume un altro colore.
Diversamente, per quante belle parole possiamo spendere per giustificare la nostra reazione, non era amore, ma possesso, o dipendenza. L’amore lascia solo libertà all’altro, anche di tradire.
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Giuseppe
3 Luglio 2017 @ 15:56
Bellissimo. Grazie.
Anonimo
14 Luglio 2017 @ 7:16
Grazie un bellissimo articolo 🙂